Favola, per antonomasia, dell’esotismo orientale, ricca di colpi di scena, agnizioni e promesse ferali, Turandot è divenuta nel tempo (da Gozzi a Puccini) l’emblema del nostro immaginario verso la grande Cina. Per la prima volta, ora, un regista italiano, proprio a partire dalla novella del principe Calaf e della principessa Turandot, si confronta con la tradizione dell’Opera di Pechino. Lo spettacolo è un sottile gioco di specchi tra due mondi, lontani in apparenza, ma reciprocamente attratti e affascinati l’uno verso l’altro. Da un lato, dunque, la raffinata arte attoriale dell’Opera di Pechino, abilissima mescolanza di recitazione, danza e canto, tesa a una continua perfezione del gesto artistico, dall’altra, invece, lo sguardo prospettico d’invenzione tutta italiana, il gusto visionario e la lunga sapienza d’ordire scene illusionistiche, abilità divenuta patrimonio del teatro europeo. Questa Turandot prosegue la fortunata esperienza italo-cinese del Faust: si rinnova il vivo confronto tutto teatrale tra Asia ed Europa.